Isidoro Cottino e Riccardo Licata.
Alla metà del XX secolo, nello scenario artistico europeo, l’informale, in tutte le sue molteplici declinazioni poetiche, è uno dei movimenti dominanti.
Uno tra i motivi fondamentali di questo ampio aspetto culturale è il rifiuto di ogni collegamento con i retaggi della tradizione, anzi del principale pilastro della storia stessa della pittura: la persistenza della figurazione alla base della sua necessità.
Michel Tapié – uno dei principali promotori e propugnatori di questo linguaggio inedito, imprevedibile e terribilmente contagioso, assiduo frequentatore dei circoli d’arte torinesi, che nel 1960, fondò sotto la Mole insieme a Franco Assetto e Luigi Moretti l’
International center of aesthetic research (Icar) di cui divenne presidente Ada Minola e che nel 1962 organizzò alla Galleria Civica d’Arte Moderna la mostra “
Strutture e stile, pitture e sculture di 42 artisti d’Europa, America e Giappone” – affermava che l’obiettivo degli artisti informali era di fare una “
art autre”, basata su nuovi valori, in grado di sopperire all’ormai vacua idealità di fine Ottocento, naufragata definitivamente con il secondo conflitto mondiale.
Catalogo (21 MB)
Se l’astrattismo era stato il fenomeno che ha maggiormente condizionato lo sviluppo dell’arte nel Novecento, nella rappresentazione dell’emozione pura e dei concetti geometrici, recidendo drasticamente i legami con l’imitazione della realtà, proponendo il superamento dei canoni figurativi, utilizzando il colore e la forma nella più completa autonomia, l’Informale ne è il contrario: è il gettarsi nella materia, percependo l’angoscia esistenziale della crisi della ragione come fondamento della finalità del mondo occidentale. Nello scandaglio inconscio della materia l’artista cerca e trova un linguaggio primigenio, un magma primordiale in cui raggiungere una nuova autenticità, ferita nel corpo e nello spirito (“La guerra, l’odio, la distruzione, il tradimento, la sconfitta, l’amara vittoria, facevano emergere gli scogli perennemente frapposti tra il mare dell’esistere ed il porto dell’assoluto: la morte, l’errore, la colpa, il nulla, l’impotenza, il tempo” (Pietro Chiodi, Corteno Golgi, 1915 – Torino, 1970), simile al fango che d’inverno inghiotte le macerie da cui ricominciare, in cui affondare le braccia e le ginocchia per provare a ricostruire un mondo possibile.
È così che la torbida materia del reale prende consistenza stabile nelle “stampe alte” di
Isidoro Cottino e che l’ansia per le certezze infrante trova rifugio nelle pagine geroglifiche di
Riccardo Licata.
Le componenti chiave dell’informale sono il gesto e la materia. Il gesto è enfatizzato e viene considerato l’unico momento creativo.
Arte non è pertanto la pittura eseguita, ma l’atto di eseguirla e il valore artistico sta nel gesto stesso e non in ciò che potrà provocare o produrre. L’energia creativa di un artista si esprime poi nella scelta degli elementi e nella fabbricazione della materia e di tutti i suoi accostamenti. Un ruvido sacco, un lucido rottame, un morbido pezzo di gomma, una scheggia di vetro sono allo stesso tempo scelte e atti artistici. L’arte è quindi l’idea, il concetto che diventa forma, e il suo campo si allarga all’infinito perché tutto può diventare arte (così come è possibile che nulla lo sia).
Se una sottile, spesso contaminata, linea di demarcazione è stata rintracciata tra l’informale materico e l’informale segnico, questa mostra ne è di certo la cartina di tornasole, una prova decisiva, irrefutabile.
Entrambi gli artisti, l’allievo e il maestro, si misurano con la necessità di costruire una base di creatività, ovviamente insofferente verso le certezze frantumate dai conflitti politici, sociali militari, sfociati nelle diatribe tra avanguardie artistiche ma, superata la trincea della “bella pittura”, disorientati nel “mare dell’oggettività” della materia.
Licata e Cottino si inventano anche pionieri di fronte al dilatarsi del momento “poietico” [del fare], poiché non dovendosi più conformare ad una prassi di strumenti e materiali prestabiliti e codificati, devono affrontarne la ricerca di nuovi, soltanto ipotizzati: la fase del reperimento si mescola alla fase strettamente creativa, e qui le strade si dividono.
Isidoro Cottino decide e raccoglie gli elementi con cui comporrà le sue matrici: cartoni, ritagli di compensato, lastre di metallo, gessi... che modula, intride di colore, accosta e sovrappone inventando nella libertà creativa del Demiurgo il modello su cui distendere il foglio di carta che, pressata sotto il torchio per l’imprimitura, gli consente di ottenere un’impronta xilografica.
Riccardo Licata sente a sé congeniali il segno – tracciato con gesto controllato, che determina la padronanza dello spazio –, ed il colore, costantemente rivissuto come memoria inobliata. L’elemento cromatico e la sua stesura non sono cosa accessoria alla materia con cui costruisce il campo di lavoro, ma sempre intimamente legata allo sviluppo dell’insieme, che l’artista rende omogeneo e unitario, tracciando con le tinte (o affondandoli nella materia con la pressione del pennello che si fa vomere) i suoi freghi sulla superficie, contribuendo alla “percezione simultanea” dell’ opera in sé senza soluzione di continuità fra materia e materia, tanto da “costruire” in questo modo anche le sue carte, acquerellandole, così da farle sembrare tessuti, arazzi e tappeti.
E per tutti e due ⪚ la memoria l’elemento che connette le tappe di viaggio, il viatico per conservare la forza di tentare e di insistere, di rischiare e di resistere, e la traccia, una personalissima mappa, da seguire per non smarrirsi nella frastagliata delineazione dei confini del mondo dell’arte.
Gianfranco Schialvino