Xilografie sperimentali
Licata e Cottino si inventano anche pionieri di fronte al dilatarsi del momento “poietico” [del fare], poiché non dovendosi più conformare ad una prassi di strumenti e materiali prestabiliti e codificati, devono affrontarne la ricerca di nuovi, soltanto ipotizzati: la fase del reperimento si mescola alla fase strettamente creativa, e qui le strade si dividono.
Isidoro Cottino decide e raccoglie gli elementi con cui comporrá le sue matrici: cartoni, ritagli di compensato, lastre di metallo, gessi... che modula, intride di
colore, accosta e sovrappone inventando nella libertà creativa del Demiurgo il modello su cui distendere il foglio di carta che, pressata sotto il torchio per l’imprimitura, gli consente di ottenere un’impronta xilografica.
Riccardo Licata sente a sè congeniali il segno – tracciato con gesto controllato, che determina la padronanza dello spazio –, ed il colore, costantemente rivissuto come memoria inobliata.
L’elemento cromatico e la sua stesura non sono cosa accessoria alla materia con cui costruisce il campo di lavoro, ma sempre intimamente legata allo sviluppo dell’insieme, che l’artista rende omogeneo e unitario, tracciando con le tinte (o affondandoli nella materia con la pressione del pennello che si fa vomere) i suoi freghi sulla superficie, contribuendo alla “percezione simultanea” dell’ opera in sé senza soluzione di continuità fra materia e materia, tanto da “costruire” in questo modo anche le sue carte, acquerellandole, così da farle sembrare tessuti, arazzi e tappeti.
E per tutti e due è la memoria l’elemento che connette le tappe di viaggio, il viatico per conservare la forza di tentare e di insistere, di rischiare e di resistere, e la traccia, una personalissima mappa, da seguire per non smarrirsi nella frastagliata delineazione dei confini del mondo dell’arte
Gianfranco Schialvino
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